Piero Formica all’Università di San Marino per descrivere la sua idea di Ateneo: “In Italia non se ne parla mai, è pericoloso”
Ateneo
L’accademico fra i principali relatori del simposio “Updating Values”, ospitato dal corso di laurea in Design il 16 e 17 gennaio
Quali sono le basi sulle quali costruire le università di domani e favorire l’innovazione? È la domanda alla quale Piero Formica, docente di Economia della Conoscenza e ricercatore della Maynooth University, in Irlanda, darà una risposta durante il convegno internazionale “Updating Values”, ospitato dall’Università degli Studi della Repubblica di San Marino e curato insieme all’Ateneo di Bologna con i rispettivi corsi di laurea in Design. Obiettivo: analizzare le dinamiche presenti e ipotizzare quelle future nell'insegnamento del Design.
Proprio l’accademico, che interverrà durante il simposio in programma al Centro Congressi Kursaal il 16 e 17 gennaio insieme ad accademici provenienti da realtà come gli Stati Uniti e gli Emirati Arabi, offre un’anticipazione del suo intervento, in programma alle 15:30 di giovedì, indicando la cornice nella quale si sviluppa un pensiero da lui descritto come “pericoloso, e proprio per questo in Italia non se ne parla mai”.
Da dove partire per ipotizzare l’Università di domani?
Non da una riforma, bensì da una rivoluzione. La realtà italiana è caratterizzata da grandi specializzazioni e, al massimo, da interdisciplinarità. Ciò ha creato pozzi di conoscenza, escludendo al contempo la possibilità di studiare cose molto diverse e, soprattutto, di combinarle insieme. Un esempio a caso: economia aziendale e poesia. Questa si chiama transdisciplinarità. Agli Atenei servono programmi transdisciplinari, non solo interdisciplinari. In Giappone ci sono scuole sperimentali nelle quali insegnano a costruire frasi con parole di lingue diverse. Soggetto in inglese, verbo in francese e così via, per aumentare il potenziale creativo degli studenti. Un esempio diverso, più lontano nel tempo: nel 1836 un reverendo attivo a Maynooth, la realtà nella quale sono ricercatore, inventò la bobina di induzione. Si chiamava Nicholas Callan. Studiava teologia e fisica. Molti grandi scienziati hanno fuso discipline diverse.
Qual è il fine del modello che propone?
Renderci di nuovo capaci di essere innovatori. Pensiamoci: quante innovazioni dirompenti negli ultimi decenni sono venute dall’Italia? Poco o nulla, a parte la Vespa della Piaggio e le scoperte sulla polimerizzazione stereospecifica di Giulio Natta, Premio Nobel per la Chimica nel 1963. Il motivo: ci si concentra sul migliorare l’esistente, la cosiddetta innovazione incrementale, per essere più performanti in ciò che si sa già fare. Bisogna, invece, cercare vie nuove e inesplorate. Per questo il mio messaggio è: lasciate a casa il vostro bagaglio di conoscenze, muovetevi verso l’ignoto e scoprite cose nuove. Non lo fa nessuno. Nemmeno le start-up. La maggior parte va al traino di imprese di successo già esistenti.
Al momento esistono limiti operativi o anche culturali?
I secondi ci sono certamente. Un altro esempio. Se un ragazzo avesse una visione, un progetto, e i suoi genitori avessero 250mila Euro da poter investire, gli direbbero: metti da parte i sogni e comprati una casa, con questi soldi. Negli Stati Uniti, magari, lo incoraggerebbero invece a utilizzare questa cifra per le sue idee. A grandi linee è successo, per esempio, con Jeff Bezos, il fondatore di Amazon. Anche se le cose non sono così semplici. In ogni caso, serve un cambio assoluto di mentalità. Parlerò anche di questo, durante il mio intervento a San Marino.
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